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Il Cardellino di Donna Tartt

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Cercare una definizione di “genere” per Il Cardellino di Donna Tartt è difficile, ma soprattutto riduttivo. In oltre ottocento pagine l’autrice utilizza molti moduli che potrebbero spingere alcuni a tirare in ballo il “romanzo di formazione”, il noir o il giallo. Ma darebbe all’ipotetico lettore un’impressione solo parziale di questo particolare romanzo.

Non ve ne descriverò la trama, non ve ne darò né l’incipit e neppure un accenno, voi dovete essere vergini davanti a queste pagine e percorrerle senza alcuna preparazione o preconcetto.

D’altra parte io ho sempre detestato le bandelle e quei riassuntini creati ad arte con lo scopo di convincere all’acquisto; ai miei occhi hanno sempre rappresentato una chiave di lettura, un’interpretazione di parte che poco o nulla ha a che fare con il pensiero dell’autore che, scrivendo, ci ha già consegnato il suo punto di vista che, in quanto tale, non necessita d’altro.

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Questa quindi non è e non vuol essere quella che comunemente noi intendiamo per “recensione”, ma solo un invito alla lettura, a non farvi sfuggire questa occasione, perché -a mio personale giudizio- di eguale valore se ne incontrano poche altre.

Molti, immagino, saranno frenati dalle sue dimensioni. Oltre ottocento pagine sono, in effetti, una cospicua quantità di capitoli, parole, vicende… Una vita, quasi!

Ma alle volte non è proprio possibile fare altrimenti.

Se per descrivere un paesaggio piovoso, un pittore impressionista impiegava un mese e voi, a guardarlo almeno mezz’ora, come pensate sia possibile a una scrittrice, quale Donna Tartt è senz’altro, usare meno di duemila battute, una pagina e mezza? Come potrebbe altrimenti restituirvi quella luce, l’odore di quella pioggia e i gesti, le chiacchiere o, peggio, il silenzio dei suoi personaggi mentre attraversano quella pioggia? L’autrice vuole portarvi in quel luogo grigio e farvi respirare la stessa aria aspra che il suo Theo respira, per permettervi di essere con lui, per consentirvi di capire.

E voi dovete fidarvi della sua guida.

Lei, per scriverlo ha impiegato quasi dieci anni, un’eternità per questo nostro tempo smozzicato e nevrotico, ma tutto questo suo rinunciare ad un’altra forma di vita le ha permesso di regalarci un romanzo “quasi” perfetto. Regalarci? Sì, io lo interpreto come un dono.

Una persona che si rinchiude in una stanza oggi, domani e la settimana prossima, e ancora il prossimo mese, e così per anni, rinunciando al cielo, a una vita distratta e disordinata, per portare a compimento questa che diventa alla fine una “vocazione”.

Mi fermerò solo sulla fine, senza nulla rivelarvi, e a sottolineare per voi la particolarità di quelle ultime dieci, quindici pagine,Donna-Tartt
nelle quali il suo protagonista lascia, quasi, la finzione narrativa per uscire dalle pagine e venirci a sedere accanto. Quel lungo discorso, con i suoi dubbi e le domande, e quell’incerta risposta che, al termine di un esistenziale e tanto umano ragionamento, egli si dà, egli ci dà… Io ho riletto parte di quella conclusione e, se già non ne fossi stata certa, è stato lì che ho capito che non è vero quanto certi critici di poco valore vanno cianciando. Mi riferisco a quell’affermazione che alcuni intellettuali di scarso valore hanno fatto dichiarando che “il romanzo è morto”. Certo, questi individui, cercavano di attirare l’attenzione su di loro, di divenire per questo capostipiti di una corrente di pensiero o che so…

Ma leggendo il racconto di Theo, seguendolo nella sua storia e poi fermandosi a ragionare con lui fino al punto finale, quello che avremmo voluto immaginare rinviato all’infinito -ormai stregati e soggiogati non dalla vicenda, non dai personaggi che pure ci avevano fatti innamorare di loro, ma dalla vita stessa e da quel modo di guardarla che Donna Tartt ci mostra- noi abbiamo la certezza che il romanzo è vivo e vivrà con noi umani ancora a lungo.

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