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Chi ha ucciso Simonetta Cesaroni?

L’indagine spicca per superficialità, sono stati commessi tutti gli errori possibili. Raffaella Fanelli va a leggere tra le pieghe dei verbali e incontra i testimoni, rischiando anche in prima persona.

 

Leggendo “Chi ha ucciso Simonetta Cesaroni” di Raffaella Fanelli, edito da Ponte alle Grazie, ho provato una grande rabbia e un senso di impotenza perché l’indagine è stata condotta con superficialità: dalle ricerche preliminari sul luogo dell’omicidio all’autopsia, dagli interrogatori di testimoni e indagati alle verifiche delle informazioni raccolte. Insomma, sono stati commessi tutti gli errori possibili. Con queste premesse era impossibile trovare l’assassino. Infatti, non esistono delitti perfetti, ma solo indagini condotte male. 

Pagina dopo pagina l’autrice, a volte trovandosi in situazioni rischiose, conduce il lettore in un labirinto di menzogne, depistaggi, colpevoli che si sono rivelati innocenti e possibili sospetti che non sono stati nemmeno indagati. Sì, anche depistaggi e servizi segreti. Probabilmente è per questo che dopo 30 anni l’assassino non sia stato trovato.

Per capire meglio, ho rivolto tre domande a Raffaella Fanelli.

 

D. Perché hai scelto Simonetta Cesaroni?
R.
Dell’omicidio di via Poma mi sono occupata anche in passato. E nel 2010 quando si indagava su Raniero Busco, l’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, ho incontrato e ascoltato diverse persone che sono state coinvolte e travolte da questa tragica vicenda. Materiale e interviste che ho messo da parte per seguire altro e che ho ripreso per caso, lo scorso anno, dopo aver incontrato a Torre Ovo, una località di mare in provincia di Taranto, dove sono nata e dove ancora vive la mia famiglia, un uomo amico dell’ex portiere di via Poma, Pietrino Vanacore. Questa persona mi ha parlato del suo amico, mi ha detto di averlo incontrato la mattina del suo presunto suicidio. La mattina del 9 marzo del 2010.  Mi ha detto “l’hanno ammazzato. Era tranquillo, ha fatto il pieno alla macchina… abbiamo preso un caffè. No, Pietrino non può essersi ucciso”. Una frase che mi è rimasta in testa. Sono andata quindi a cercare il figlio del portiere, Mario Vanacore che quel 7 agosto del 1990 era in via Poma. Era arrivato quel giorno da Torino con la moglie e la figlia di pochi mesi.  L’ho incontrato e intervistato. Mi ha detto di non credere al suicidio del padre.  Mi ha detto che avevano già organizzato il viaggio a Roma per testimoniare nel processo contro Raniero Busco, all’epoca imputato per l’omicidio di Simonetta. Mi ha detto che sarebbe andato in Puglia a prendere il padre Pietrino, e la matrigna, Giuseppa De Luca, per accompagnarli nell’aula Raffaella Fanellibunker di Rebibbia dove anche lui era stato chiamato a testimoniare. Mi ha detto anche di aver riportato i suoi dubbi durante le indagini sul suicidio del padre.  “Mai mio padre si sarebbe ucciso senza lasciare una lettera per noi figli”. Mario Vanacore mi ha mostrato i risultati dell’autopsia e mi ha fatto leggere un diario del padre. L’autopsia ha dimostrato che l’ex portiere non aveva ingerito niente per stordirsi. La protesi dentaria a riva. E lui affogato in meno di un metro d’acqua, in una zona piena di scogli dove avrebbe potuto semplicemente alzarsi in piedi o afferrare una roccia per un naturale istinto di sopravvivenza. E poi - al di là delle certezze di Mario Vanacore - non convince il momento del suo suicidio. Perché decide di ammazzarsi quando sul banco degli imputati c’era un altro?  Avrebbe potuto fare scena muta, salutare a andarsene in quanto già imputato per lo stesso reato. Stando a Mario Vanacore, il padre mai avrebbe fatto condannare un innocente. Busco sarà condannato in primo grado a 24 anni e poi assolto in appello e in Cassazione ma è il suicidio di Vanacore che lascia dubbi. Dubbi che ho voluto mettere nero su bianco in un libro. Riprendendo il materiale, le registrazioni che avevo delle udienze del processo a Raniero. Riascoltando le mie interviste. Il mio libro nasce per Pietrino Vanacore… poi, è andato oltre.

D. Leggendo il tuo saggio, ho provato tanta rabbia e senso di impotenza, e tu come ti sei sentita mentre raccoglievi le informazioni?
R.
Cosa ho provato? Ho sempre pensato ad indagini sbagliate, a responsabilità scaricate sul più debole per incapacità. Poi ho capito che in questa storia c’è ben altro. Che ci sono state persone chiamate a depistare. Che il cliché del portiere assassino in realtà ha fatto comodo così come quello del fidanzato violento. Perché la posta in gioco dietro l’omicidio di Simonetta Cesaroni è stata, da subito, più importante della soluzione del caso. Più importante della ricerca stessa della verità.  E ho provato tanta rabbia.

D. Dopo tanti anni, cosa ti aspetti con la pubblicazione del libro?
R.
Spero in una verità per Simonetta Cesaroni e per le persone che l’hanno amata. Perché i dubbi e le domande lacerano e rendono ancora più difficile l’elaborazione di un lutto. La procura sta indagando, anche se appare impossibile, dopo così tanti anni, una verità giudiziaria. Trent’anni sono troppi. E chi avrebbe potuto dare notizie utili ha taciuto, per paura. Sarebbe importante far luce anche sul presunto suicidio del portiere di Via Poma: Pietrino Vanacore è stato tolto di mezzo perché sapeva? E’ da questa domanda che è partito il mio libro.

 

  

Chi è Raffaella Fanelli
Giornalista, ha scritto per numerose testate, tra le quali la Repubblica, Sette - Corriere della Sera, Panorama, Oggi, e altrettante trasmissioni televisive, da Quarto grado a Verissimo a Chi l’ha visto? Ha realizzato interviste a Salvatore Riina, Angelo Provenzano, Vincenzo Vinciguerra, Valerio Fioravanti. Nel 2018 pubblica La verità del Freddo (Chiarelettere). Nel 2019 una sua inchiesta giornalistica permette alla procura di Roma di riaprire le indagini sull’omicidio di Mino Pecorelli e, nel 2020, dà alle stampe, con Ponte alle Grazie, La strage continua. La vera storia dell’omicidio di Mino Pecorelli. Nel 2022 pubblica OP, il podcast sul delitto del giornalista. Del 2023 è Chi ha ucciso Simonetta Cesaroni? (Ponte alle Grazie).
MZ