Peppino disse, esclamò, concluse…

Written by FPM on . Pubblicato in Corsivi

 

ghost-writer-titleQuante volte scrivendo un dialogo inciampiamo nella necessità di specificare l’autore di una frase? La letteratura moderna ci ha sì abituati ai “rimpalli” tra due voci narranti, nelle quali non ci sono specifiche; un po’ di sforzo da parte del lettore e voilà non c’è bisogno d’altro. Ma quando i personaggi che interloquiscono sono più di due, a meno di voler consegnare ai posteri un prodotto ermetico-surrealista-onirico, occorre precisare. 

E allora?

 

Allora, inevitabilmente, si finisce nel rovello dei “disse, proruppe, esclamò, commentò, aggiunse, ecc…”.
Anni fa lessi un articolo di Alessandro Baricco (che per chi è interessato ripropongo in calce a questo mio intervento), che era andato alla scoperta di Raymond Carver. Uno scritto non interessante, di più, che dimostra - qualora ce ne fosse ancora bisogno – che alle volte la fama arride a qualcuno non si sa bene perché.
gwE la dice anche lunga sulla figura dell’editor, un tempo Ghostwriter nell’ombra, oggi indispensabile stampella di quasi tutti gli scrittori che pubblicano (con editore o in modalità Self).


Ma il punto sul quale voglio fermare la vostra attenzione è un altro. A un certo punto Baricco esplode di entusiasmo ad una caratteristica della scrittura del celebre scrittore e caposcuola americano (anche questa ahimè farina non del suo sacco!). Vi riporto il passaggio:
«(…) Ad esempio i dialoghi. Asciuttissimi. Cadenzati da quello sfinente e ossessivo "disse" che, nella sua prosa, finisce per diventare una specie di batteria che dà il tempo, con implacabile esattezza. Esempio: proprio il dialogo, sopra citato, tra Bill e Jerry, in macchina. Nella edizione ufficiale è un bell' esempio di stile carveriano. "Guarda là", disse Jerry rallentando. "Quelle me le farei volentieri". Jerry proseguì più o meno per un chilometro e poi accostò. "Torniamo indietro", disse. "Proviamoci". "Cristo", disse Bill. "Non so". "Io me le farei", disse Jerry. Bill disse: "Già, ma io non so". "Oh Cristo", disse Jerry. Bill diede un' occhiata all' orologio e poi si guardò intorno. Disse: "Ci parli tu? Io sono arrugginito". Pulito, veloce, ritmico, non una parola di troppo. Un bisturi. Però è la versione di Gordon Lish. Il dialogo scritto originariamente da Carver suona diverso: "Guarda là!", disse Jerry rallentando. "Potrei farci qualcosa con quella roba là". Proseguì lungo la strada, ma tutt' e due si girarono indietro. Le due ragazze li guardarono e si misero a ridere, continuando a pedalare sul ciglio della strada. Jerry proseguì per un altro miglio poi accostò in una piazzuola. "Torniamo indietro. Proviamoci". "Gesù. Non so. Dovremmo tornare a casa. E poi sono un po' troppo giovani, no?". "Vecchie abbastanza da sanguinare, vecchie abbastanza da... lo conosci il detto, no?". "Sì, ma non so". "Cristo, dobbiamo solo divertirci un po' con loro, fargliela passare brutta per un po' ...". "Certo. Sicuro". Diede un' occhiata all' orologio e poi al cielo. "Parla tu". "Io? Io sto guidando. Ci parli tu. E poi son dalla tua parte". "Non so, sono un po' arrugginito". Sottigliezze? Mica tanto. Se uno costruisce petroliere, non gli vai a controllare le viti. Ma se fa orologi da taschino, sì. Carver era un orologiaio. Lavorava sul minimo. Il particolare è tutto. E poi le parole di un dialogo sono come piccoli mattoni, se ne cambi uno, non succede niente, ma se continui a cambiare alla fine ti trovi una casa diversa. Dov' è finito il mitico "disse"? Dov' è finita la batteria? E la regola del mai una parola di troppo? Dov' è finito quello che noi chiamiamo Carver? Per la cronaca: li ho contati, i "disse" aggiunti da Gordon Lish al testo di Carver. In quel racconto. Trentasette. In dodici cartelle di cui quasi la metà non sono dialogo e quindi non fanno punteggio. Lavorava di fino, Gordon Lish. Uno di talento, niente da dire. Fine della nota tecnica.»


john-fante1Bene, avete letto l’entusiasmo del nostro caro Alessandro per i “disse” carveriani?Raymond Carver
Si dà però il caso che prima di Raymond Carver, parecchi anni persino che questi nascesse, un altro americano (ben noto ad Alessandro Baricco, visto che ha curato una dotta prefazione al suo più celebre romanzo, Chiedi alla polvere, nella bella edizione Einaudi), certo misconosciuto John Fante (sigh!) aveva scritto paginate di dialoghi usando il fatidico “disse”, con una ripetitività persino più “martellante” di quanto non abbia fatto Carver… ops! Il suo editor-ombra Gordon Lish…

Non corredo questo mio testo con i passi in questione, invitandovi così a prendere in mano il bellissimo libro di Fante, forse il migliore (anche secondo il mio personale giudizio), e a scoprire che chi inventò i “disse a raffica” non è stato né Carver né tantomeno il suo editor, ma un creativo italo-americano che dovette attendere quasi la fine della sua esperienza terrena per veder riconosciuti i suoi meriti di scrittore.


[E, a proposito di Raymond Carver, a me questa scoperta di Baricco, devo dirvi, mi ha proprio fatta inc…..re. Perché? Ma perché sapere che il pensiero e il lavoro di un autore sia stato “modificato”, “trasformato” e “mutilato” da qualcun altro mi fa cadere le braccia e l’entusiasmo per la Letteratura e gran parte dei miti che in tanti veneriamo nel nostro intimo. Quanti di questi ci avrebbero lasciati indifferenti senza l’intervento di un certo signor N.N.? Sigh…]


chiedi-alla-polvereTornando a Carver/Fante, da ciò si potrebbe concludere che la Letteratura suscita nei suoi fruitori una memoria breve o, peggio, che alla fine meriti e demeriti, basta che si sia divenuti “famosi e adorati”, fan tutt’uno. Insomma, voi tirate giù la lezione che volete, ma ricordate che non siete i soli ad aver sofferto per quei “disse, proferì, esclamò”, che a ben vedere sono la damnatio di tanti, anche osannati, scrittori.
Flaminia P. Mancinelli

P.S.
Un altro giorno mi piacerebbe parlare delle cosiddette “ripetizioni”. Che sono un’altra damnatio degli scrittori, ma che alcuni considerano indispensabili e parte dello “stile”.
Fatemi sapere, nel caso foste interessati…

 


Articolo di Alessandro Baricco per La Repubblica: 
L' uomo che riscriveva Carver

BLOOMINGTON (Indiana) TUTTO è iniziato qualche mese fa, ad agosto. Compro il New York Times e ci trovo il Magazine con in copertina un bellissimo ritratto fotografico di Raymond Carver. Occhi fissi nell' obbiettivo ed espressione impenetrabile, esattamente come i suoi racconti. Apro la rivista e trovo un lungo articolo firmato D.T. Max. Diceva cose curiose. Diceva che da vent' anni circola una voce, a proposito di Carver, e cioè che i suoi memorabili racconti non li abbia scritti lui. Cioè, per essere precisi: lui li scriveva, ma il suo editor glieli correggeva così radicalmente da renderli quasi irriconoscibili. Diceva l'articolo che questo editor si chiamava Gordon Lish, anzi si chiama, perché è ancora vivo, anche se di questa storia pare non parli volentieri. Poi l'articolista diceva che gli era venuta voglia di controllare cosa ci fosse di vero, in questa specie di leggenda metropolitana. E così aveva preso ed era andato a Bloomington, nell' Indiana, in una biblioteca a cui Gordon Lish ha venduto tutte le sue carte, dattiloscritti di Carver compresi, con tutte le correzioni. E' andato e ha guardato. Ed è rimasto di stucco. In modo molto americano, ha preso uno dei libri di Carver (Di cosa parliamo quando parliamo d' amore) e ha fatto i conti. Risultato: nel suo lavoro di editing Gordon Lish ha tolto quasi il 50 per cento del testo originale di Carver e ha cambiato il finale a dieci racconti su tredici. Mica male, eh? Dato che Carver non è uno qualunque, ma uno dei massimi modelli letterari dell'ultimo ventennio, ho pensato che lì c'era una storia da capire. E dato che sui giornali si scrive spesso, ormai, quello che è bello leggere e molto meno quello che realmente accade, ho pensato che c'era un solo modo di capire. Andare e controllare. Così sono andato e ho controllato. Bloomington effettivamente esiste, è una cittadina universitaria persa in mezzo a chilometri di grano e silos. Tanti studenti e, al cinema, Benigni. Tutto regolare. Anche la biblioteca esiste. Si chiama Lilly Library, è specializzata in manoscritti, prime edizioni e altri preziosissimi oggetti feticistici di questo tipo. Fosse in Europa, per entrarci dovresti lasciare in ostaggio un parente, presentare chili di lettere di presentazione, e sperare in bene. Ma lì è America. Dai un documento, ti fanno molti sorrisi, ti spiegano il regolamento, e ti augurano buon lavoro (in casi come quelli io oscillo fra due pensieri: "Sono così eppure uccidono la gente sulla sedia elettrica" e "Sono così e infatti uccidono la gente sulla sedia elettrica"). Così mi son seduto, ho chiesto il fondo Gordon Lish, e mi son visto portare uno scatolone da traslochi, pieno di ordinatissime cartelline. In ogni cartellina, un racconto di Carver. Il dattiloscritto originale con le correzioni di Gordon Lish. Purché non usassi biro, tenessi i gomiti sul tavolo, e girassi i fogli uno ad uno, potevo toccare e guardare. Grande. Alessandro Emmaus2Sono andato dritto al più bello (secondo me) dei racconti di Carver: Di' alle donne che usciamo. Un marchingegno pressoché perfetto. Una lezione. Ho preso la cartellina, l' ho aperta. Mi son ripetuto che dovevo tenere i gomiti sul tavolo, e ho iniziato a leggere. Da non crederci, gente. * * * L' ha scelto anche Altman, per il suo America oggi, quel racconto. Piaceva anche a lui. Otto paginette e una trama molto semplice. Ci sono Bill e Jerry. Amici del cuore fin dalle elementari. Di quelli che si comprano la macchina metà per uno e si innamorano delle stesse ragazze. Crescono. Bill si sposa. Jerry si sposa. Nascono bambini. Bill lavora nel ramo grande distribuzione. Jerry è vicedirettore di un supermercato. La domenica, tutti a casa di Jerry che ha la piscina di plastica e il barbecue. Americani normali, vite normali, destini normali. Una domenica, dopo pranzo, con le donne in cucina a riordinare e i bambini a far casino in piscina, Jerry e Bill prendono la macchina e vanno a farsi un giro. Per strada incrociano due ragazze, in bicicletta. Accostano con la macchina e fanno un po' i fessi. Le ragazze ridacchiano. Non gli danno molta corda. Bill e Jerry se ne vanno. Poi tornano. Non è che sanno benissimo cosa fare. A un certo punto le ragazze posano le biciclette e imboccano un sentiero, a piedi. Bill e Jerry le seguono. Bill, un po' spompato, si ferma. Si accende una sigaretta. Qui il racconto finisce. Ultime quattro righe: "Non capì mai cosa volesse Jerry. Ma tutto cominciò e finì con una pietra. Jerry usò la stessa pietra su tutte e due le ragazze, prima su quella che si chiamava Sharon e poi su quella che doveva essere di Bill". Fine. Freddo, asciutto fino all' eccesso, metodico, micidiale. Un medico alla milionesima autopsia tradirebbe maggiore emozione. Puro Carver. Un finale fulminante, e un'ultima frase perfetta, tagliata come un diamante, semplicemente esatta, e agghiacciante. Quell' idea di impietosa velocità, e quel tipo di sguardo impersonale fino al disumano, son diventati un modello, quasi un totem. Scrivere non è stata più la stessa cosa, dopo che Carver ha scritto quel finale. Bene. E adesso una notizia. Quel finale non l'ha scritto lui. L' ultima frase - quella splendida, totemica ultima fase - è di Gordon Lish. Al suo posto Carver, in realtà, aveva scritto sei cartelle sei: buttate da Gordon nel cestino. Leggerle, fa un certo effetto. Carver racconta tutto, tutto quello che, nella versione corretta, sparisce nel nulla dando al racconto quel tono di formidabile, lunare ferocia. Carver segue Jerry su per la collina, racconta lungamente l'inseguimento a una delle due ragazze, racconta Jerry che violenta la ragazza e poi si rialza, e rimane come intontito, e inizia ad andarsene, ma poi torna indietro, e minaccia la ragazza, vuole che lei non dica niente di quel che è successo. Lei non fa che passarsi le mani nei capelli e dire "vattene", solo quello. Jerry continua a minacciarla, lei non dice nulla, e allora lui la colpisce con un pugno, lei cerca di scappare, lui prende una pietra e la colpisce in faccia ("sentì il rumore dei denti e delle ossa che si spaccavano") si allontana, poi torna indietro, lei è ancora viva, si mette a urlare, lui prende un'altra pietra e la finisce. Il tutto in sei cartelle: che vuol dire senza sbrodolature, ma anche senza fretta. Con la voglia di raccontare: non di occultare. Sorprendente, vero? Anche di più è leggere il finale, voglio dire proprio le ultime righe. Cosa mise il freddo, disumano, cinico Carver, alla fine di quella storia? Questa scena: Bill arriva sul colmo della collina e vede Jerry, in piedi, immobile, e accanto a lui il corpo della ragazza. Vorrebbe scappare ma non riesce a muoversi. Le montagne e le ombre, intorno a lui, gli sembrano un incantesimo oscuro che li imprigiona. Pensa irragionevolmente che magari scendendo di nuovo fino alla strada e facendo sparire una delle due biciclette tutto quello si cancellerebbe e la ragazza la smetterebbe di essere lì. Ultime righe: "Ma Jerry adesso stava in piedi davanti a lui, sparito nei suoi vestiti come se le ossa l'avessero abbandonato. Bill sentì la terribile vicinanza dei loro due corpi, la lunghezza di un braccio, anche meno. Poi la testa di Jerry cadde sulla spalla di Bill. Lui sollevò una mano e, come se la distanza che adesso li separava meritasse almeno quello, si mise a dare dei colpi a Jerry, affettuosamente, sulla schiena, scoppiando a piangere". Fine. Adieu, mister Carver. * * * Ora: qui la curiosità non è quella di capire se sia più bello il racconto come l'ha scritto Carver o com' è uscito dalla falce di Gordon Lish. La cosa interessante è scoprire, sotto le correzioni, il mondo originale di Carver. E' come riportare alla luce un dipinto su cui qualcuno, dopo, ha dipinto un'altra cosa. Lavori di solvente e scopri mondi nascosti. Una volta iniziato, è difficile fermarsi. Infatti non mi son fermato. Di' alle donne che usciamo è il capolavoro che è anche perché realizza alla perfezione un modello di storia che poi avrebbe avuto, sugli eredi più o meno diretti di Carver, un fascino fortissimo. Quel che si racconta lì è una violenza che nasce, senza apparenti spiegazioni, da un terreno di assoluta normalità. Più il gesto violento è immotivato, e più chi lo compie è una persona, sulla carta, assolutamente ordinaria, più quel modello di storia diventa paradigma del mondo, e abbozzo di un'inquietante rivelazione sulla realtà. Troppo inquietante e affascinante, per non esser presa sul serio. Tutti i ragazzi per bene che, in tanta recente letteratura buona e meno buona, uccidono nel modo più efferato e senza alcuna ragione, nascono da lì. Ma se si usa il solvente, si scopre una cosa curiosa. Carver non ha mai pensato a Jerry come a uno davvero normale, come a un americano ordinario, come a uno di noi. Bill, lui sì, lo è. Ma Jerry no. E il racconto semina qua e là piccoli e grandi indizi. Parlano di un ragazzo che perde il lavoro perché "non era il tipo cui piacesse sentirsi dire cosa doveva fare". Parlano di un ragazzo che al matrimonio di Bill si ubriaca, si mette a corteggiare pesantemente entrambe le damigelle della sposa e va a cercarsi una rissa con gli impiegati dell’albergo. E in auto, quella famosa domenica, quando vedono le due ragazze, il dialogo originale carveriano è piuttosto duro: (Jerry) "Andiamo. Proviamoci". (Bill) "Gesù. Non so. Dovremmo tornare a casa. E poi sono un po' troppo giovani, no?". "Vecchie abbastanza da sanguinare, vecchie abbastanza da... lo conosci il detto no?" "Sì, ma non so". "Cristo, dobbiamo solo divertirci un po' con loro, fargliela passare brutta per un po' ...". Ce n' è abbastanza perché il lettore senta puzza di violenza e tragedia in arrivo. E quando la tragedia arriva è lunga sei pagine, ed è ricostruita passo per passo, spiegata passo per passo, con una logica che agghiaccia ma è una logica, in cui ogni gradino è necessario, e tutto sembra, alla fine, quasi naturale. Tutto viene in mente tranne un teorema che descrive la violenza come un improvviso segmento impazzito della normalità. La violenza, lì, è piuttosto il risultato di una operazione lunga una vita. Solo che Gordon Lish cancellò tutto. Aveva del talento, niente da dire. Fin nei più piccoli indizi, toglie a Jerry il suo passato, compresi gli ultimi minuti a ridosso dell'assassinio. Vuole che la tragedia, surgelata, sia messa in tavola nelle ultime quattro righe. Niente anticipazioni, please. Si perde l'effetto. Risultato: American Psyco nasce lì. Ma Carver, lui, cosa c' entra? * * * Posso permettermi una nota più tecnica? Bene. Carver è grande anche per certi stilemi che, magari senza che il lettore se ne accorga, costruiscono sotterraneamente quello sguardo micidiale per cui è diventato famoso. Trucchi tecnici. Ad esempio i dialoghi. Asciuttissimi. Cadenzati da quello sfinente e ossessivo "disse" che, nella sua prosa, finisce per diventare una specie di batteria che dà il tempo, con implacabile esattezza. Esempio: proprio il dialogo, sopra citato, tra Bill e Jerry, in macchina. Nella edizione ufficiale è un bell' esempio di stile carveriano. "Guarda là", disse Jerry rallentando. "Quelle me le farei volentieri". Jerry proseguì più o meno per un chilometro e poi accostò. "Torniamo indietro", disse. "Proviamoci". "Cristo", disse Bill. "Non so". "Io me le farei", disse Jerry. Bill disse: "Già, ma io non so". "Oh Cristo", disse Jerry. Bill diede un'occhiata all' orologio e poi si guardò intorno. Disse: "Ci parli tu? Io sono arrugginito". Pulito, veloce, ritmico, non una parola di troppo. Un bisturi. Però è la versione di Gordon Lish. Il dialogo scritto originariamente da Carver suona diverso: "Guarda là!", disse Jerry rallentando. "Potrei farci qualcosa con quella roba là". Proseguì lungo la strada, ma tutt' e due si girarono indietro. Le due ragazze li guardarono e si misero a ridere, continuando a pedalare sul ciglio della strada. Jerry proseguì per un altro miglio poi accostò in una piazzuola. "Torniamo indietro. Proviamoci". "Gesù. Non so. Dovremmo tornare a casa. E poi sono un po' troppo giovani, no?". "Vecchie abbastanza da sanguinare, vecchie abbastanza da... lo conosci il detto, no?". "Sì, ma non so". "Cristo, dobbiamo solo divertirci un po' con loro, fargliela passare brutta per un po' ...". "Certo. Sicuro". Diede un'occhiata all' orologio e poi al cielo. "Parla tu". "Io? Io sto guidando. Ci parli tu. E poi son dalla tua parte". "Non so, sono un po' arrugginito". Sottigliezze? Mica tanto. Se uno costruisce petroliere, non gli vai a controllare le viti. Ma se fa orologi da taschino, sì. Carver era un orologiaio. Lavorava sul minimo. Il particolare è tutto. E poi le parole di un dialogo sono come piccoli mattoni, se ne cambi uno, non succede niente, ma se continui a cambiare alla fine ti trovi una casa diversa. Dov' è finito il mitico "disse"? Dov' è finita la batteria? E la regola del mai una parola di troppo? Dov' è finito quello che noi chiamiamo Carver? Per la cronaca: li ho contati, i "disse" aggiunti da Gordon Lish al testo di Carver. In quel racconto. Trentasette. In dodici cartelle di cui quasi la metà non sono dialogo e quindi non fanno punteggio. Lavorava di fino, Gordon Lish. Uno di talento, niente da dire. Fine della nota tecnica. Ma non dell'articolo: perché ho ancora un esempio. Clamoroso. L' ultimo racconto della raccolta Di cosa parliamo quando parliamo d' amore è brevissimo, quattro pagine. Si intitola Ancora una cosa. Formidabile, per quanto ne capisco io. Una scossa elettrica. E' un litigio. Un marito ubriacone, da una parte. La moglie, dall' altra, con una figlia piccola. La moglie non ne può più e urla al marito di sparire, per sempre. Lui dice delle cose. Si urlano delle cose. Non c' è quasi azione, solo voci che buttano fuori miseria, e dolore, e rabbia, macinando odio al ritmo degli ossessivi "disse". Quel che ti tiene col fiato sospeso è che tutto sta in bilico sulla tragedia. La violenza del marito sembra sempre lì lì per esplodere. E' una bomba innescata. C' è un istante in cui tutto diventa quasi insopportabilmente acuminato. Lui tira un barattolo contro una finestra. Lei dice alla figlia di chiamare la polizia. Ma poi quello che succede è che lui dice Va bene, me ne vado, e va in camera, e fa la valigia. Torna in salotto. La miccia della bomba sembra sempre più corta. Ultime battute, di odio puro. Il marito è ormai sulla soglia. Dice: "Soltanto una cosa voglio ancora dire". Punto, a capo. Ultima frase: "Ma poi non riuscì a pensare cosa mai potesse essere". Fine. E' il classico Carver. Miserie di un' umanità disarmata e senza parole. Nulla che accade, e tutto che potrebbe accadere. Finale muto. Il mondo è tragedia bloccata. Alla Lilly Library ho preso il dattiloscritto di Carver. L' ho letto. Sono arrivato al fondo. Il marito è sulla soglia. Si volta e dice. "Soltanto una cosa voglio ancora dire". Beh, sapete che c' è? Lì, in quel dattiloscritto, la dice. E come se non bastasse, sapete cosa dice? Ecco qua: "Ascolta, Maxine. Ricordati questo. Io ti amo. Io ti amo qualunque cosa accada. E amo anche te, Bea. Vi amo tutt' e due". Rimase in piedi sulla soglia e sentì le labbra iniziare a tremare mentre le guardava per quella che, pensava, sarebbe stata l' ultima volta. "Addio", disse. "Questo lo chiami amore", disse Maxine. Lasciò andare la mano di Bea. E chiuse la sua a pugno. Poi scosse la testa e sprofondò le mani nelle tasche. Lo fissò e poi lasciò cadere lo sguardo da qualche parte, per terra, vicino alle scarpe di lui. A lui venne in mente, come uno shock, che avrebbe ricordato per sempre quella sera e lei ferma in quel modo. Era orribile pensare che per tutti gli anni a venire lei sarebbe stata per lui quella donna indecifrabile, una figura muta chiusa in un abito lungo, in piedi al centro della stanza, con gli occhi a guardare per terra. "Maxine", grido. "Maxine!" "Questo lo chiami amore?", lei disse, alzando lo sguardo e fissandolo. I suoi occhi erano terribili e profondi, e lui li guardò, per tutto il tempo che poté. L' ho letto e riletto, questo finale. Non è stupefacente? E' come scoprire che, nella sua versione originale, Aspettando Godot finisce con Godot che effettivamente arriva, e dice cose sentimentali, o anche solo sensate. E' come scoprire che nella versione originale dei Promessi Sposi Lucia manda a stendere Renzo e finisce alla grande con una tirata anticlericale. Non so. Le dice "Ti amo", capito? Sembrava il capolinea dell' umanità e della speranza, quel suo silenzio, sulla soglia di casa sua. E invece era solo un uomo che prendeva il fiato, col cuore a mille, per trovare la forza di dire alla sua donna che lui l' ama, nonostante tutto, la ama. Non è il silenzio del deserto dell' anima. Doveva solo prender fiato. Trovare il coraggio. Tutto lì. Anche le Apocalissi, non sono più quelle di un tempo. * * * L' articolo sul Magazine del New York Times ricostruiva la vicenda e poi intervistava un po' di addetti ai lavori, interrogandosi su quanto il lavoro di editing abbia il diritto di sovrapporsi al lavoro dell' autore. E naturalmente chiedendosi se tutto ciò ridimensionasse la figura di Carver o no. Certo la faccenda è interessante, e anche qui in Italia potrebbe esser presa a pretesto per tornare a riflettere sul lavoro degli editor, e magari per scoprire qualche gustoso retroscena nostrano. Ma il punto che a me sembra più interessante è un altro. E' scoprire che uno dei massimi modelli della cultura narrativa contemporanea era un modello artificiale. Nato in laboratorio. E soprattutto: scoprire che Carver stesso non era in grado di tenere quello sguardo implacabile sul mondo che i suoi racconti sfoggiano. Anzi, in certo modo lui aveva l' antidoto contro quello sguardo. Lo abbozzava, quello sguardo, forse l' ha perfino inventato, ma poi tra le righe, e soprattutto nei finali, lo confutava, lo spegneva. Come se ne avesse paura. Costruiva paesaggi di ghiaccio ma poi li venava di sentimenti, come se avesse bisogno di convincersi che, nonostante tutto quel ghiaccio, erano vivibili. Umani. Alla fine la gente piange. O dice Ti amo. E la tragedia è spiegabile. Non è un mostro senza nome. Gordon Lish dovette intuire che, al contrario, la visione pura e semplice di quei deserti ghiacciati era ciò che di rivoluzionario aveva quell' uomo in testa. Ed era ciò che i lettori avevano voglia di sentirsi raccontare. Cancellò minuziosamente tutto ciò che poteva scaldare quei paesaggi, e quando ce n' era bisogno, aggiunse perfino del ghiaccio. Da un punto di vista editoriale aveva ragione lui: costruì la forza di un vero e proprio modello inedito. Ma il punto di vista editoriale, è il punto di vista migliore? L' ultimo giorno, alla Lilly Library, mi son riletto i due racconti, di filato, nella versione originaria di Carver. Bellissimi. In modo diverso, ma bellissimi. Sapete cosa c' era di diverso? C' era che alla fine tu stavi dalla parte di Jerry, e del marito ubriacone. C' è una compassione per loro, e una comprensione di loro, che ottiene l' acrobazia insensata di farti sentire dalla parte del cattivo. Io conoscevo il Carver che sapeva descrivere il male come cancro cristallizzato sulla superficie della normalità. Ma lì era diverso. Lì era uno scrittore che provava disperatamente a trovare un risvolto umano al male, a dimostrare che se il male è inevitabile, dentro di esso c' è una sofferenza, e un dolore, che sono il rifugio dell' umano - il riscatto dell' umano - nel glaciale paesaggio della vita. Doveva intendersene, di personaggi negativi, lui. Lui era un personaggio negativo. Mi sembra perfino naturale, adesso, pensare che ossessivamente abbia cercato di fare proprio quello e nient' altro che quello: riscattare i cattivi. Nell' ultimo racconto, quello del litigio, Gordon Lish tagliò quasi tutte le battute della figlia, e quelle battute sono affettuose, sono le parole di una ragazzina che non vuole perdere suo padre, e che vuole bene a suo padre. Adesso mi sembrano la voce di Carver. E c' è una battuta, a un certo punto, regolarmente tagliata da Lish, in cui il padre la guarda, quella ragazzina, e quello che dice è di una tristezza, e di una dolcezza, immense: "Tesoro, mi spiace. Sono andato in collera. Dimenticami vuoi? Mi dimenticherai?" Non so. Bisognerebbe andare a guardare tutti gli altri racconti, bisognerebbe studiarci un po' su seriamente. Ma me ne son venuto via da là con l' idea che quell' uomo, Carver, forse aveva in testa qualcosa di tremendo eppure affascinante. Come un' idea. Che la sofferenza delle vittime è insignificante. E che il residuo di umanità che cova sotto questa glaciazione è custodito nel dolore dei carnefici. Non sarebbe un grande, se fosse così?
di ALESSANDRO BARICCO

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(da La Repubblica, 27/04/1999)

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