Un romanzo che vi porterà lontano

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Cosa mi è rimasto dopo la lettura del romanzo di Haruki Murakami L'uccello che girava le viti del mondo...

Non c’è forse una enunciazione che possa definire in modo conclusivo i romanzi di Haruki Murakami ma spesso, quando si parla della sua letteratura il riferimento più frequente è al termine “fantastico”. Forse chi lo usa ha in mente scrittori famosi per il loro “realismo magico” come Massimo Bontempelli o Annamaria Ortese, chi non ha amato ed ha riamato perdersi nel suo  Il cardillo innamorato?

Invece Murakami, è bene chiarirlo subito, non è la Ortese, la sua scrittura ha sì momenti fantastici ma tanto per cominciare è uno stile nettamente maschile di approccio al raccontare, e poi appartiene a una cultura lontana anni luce da quella delle rive del nostro Mediterraneo.

Se devo darvi un parere tout court su L’uccello che girava le viti del mondo è senz’altro positivo. In mezzo a tanti libri che vengono scritti ed editati non si capisce perché… Questo ha un valore. E credo che per ognuno il motivo sarà differente, ma ci sarà. Vi dirò di armarvi di forza e coraggio, e comunque di leggerlo, è un'esperienza che vi rimarrà dentro a lungo.

Io l’ho terminato da poche ore, e quindi da pochissimo ho iniziato a separarmi da lui e già me ne sento orfana…

Orfana di quel mondo di Murakami che non mi sento di condividere se non in piccolissima parte, e ciononostante si è insinuato nel mio immaginario e nel mio personale con una forza straordinaria.

In un punto di questo romanzo si legge di un giovane uomo che scende in un profondo pozzo essiccato, sito in un giardino abbandonato, e dice di questa sua esperienza: “Decisi di smettere di occuparmi della mia coscienza. Dovevo pensare a cose più reali. Al mondo fisico, concreto. Per quello ero sceso lì dentro. Per pensare alla realtà. Perché mi sembrava che fosse più facile riflettere sulla realtà allontanandomene.”
Ecco, mi viene da pensare che la poetica di Haruki Murakami sia tutta proprio in questo pensiero: mi sembrava che fosse più facile riflettere sulla realtà allontanandomene.
Murakami propone al lettore diversi metodi di allontanamento, alle volte narrando di  avvenimenti irreali, che definire soltanto onirici sarebbe riduttivo. Altre volte raccontando di fughe dell’immaginazione in territori sconosciuti, ma altre volte portandovi in territori storici, lontani solo nella misura del tempo, dove sembra si stabilisca una relazione, un passaggio di tipo quantico, con il presente dei suoi protagonisti.

Per leggere Murakami – e non solo quello de L’uccello che girava le viti del mondo – bisogna comunque essere muniti di una personale scorta di ottimismo e di visione positiva della vita. Forse qui c’è l’influenza di una cultura, quella giapponese, che ha riti e religioni estremamente distanti dalle nostre, dove la popolazione pratica il suicidio come per noi sarebbe inimmaginabile. E dove sembra (almeno leggendo Murakami) che il sorriso aleggi davvero poco sui visi delle persone.

Se qualcun sorride, affronta la vita con spensieratezza è solo perché si trova in una condizione di “incoscienza”.

Chi sa, chi vive ogni giorno con consapevolezza la propria esperienza su questa Terra, non sorride mai, non è “quasi” mai felice, e a proposito di questo particolare sentimento  -la felicità- neppure la nomina mai.

Forse noi popoli mediterranei siamo proprio diversi dalle genti del Sol levante, ma io non riesco a sentirmi partecipe della vita che il protagonista ci racconta di aver vissuto. Mi sento affliggere da una insuperabile sensazione di estraneità non solo di fronte alle vicende del giovane Okada Toru, ma anche nei confronti di tutti i personaggi di questo grandioso affresco.

Ad Okada, che sta a casa senza lavoro da mesi, prima sparisce il gatto e poi la moglie. Per cercarli finirà in un pozzo, si trasformerà in una specie di psicoterapeuta e in immaginario assassino. Accanto a lui sfilano personaggi di diverso spessore, che pochissima o nessuna aderenza hanno con la realtà. Una giovane ragazza –Kasahara May- che senza alcun desiderio né aspirazione per la propria vita, segue per un po’ quella di Okada, e poi si impegna in un’esperienza senza futuro e senza passione.

Come gli attori del tradizionale teatro giapponese, le figure che compaiono nell’immenso affresco del racconto di Murakami, sembrano in effetti mancare tutte di pathos, vi è un rapporto algido tra tutti, uomini o donne, e anche in rapporto a se stessi.


Al lettore occidentale sembrerà di entrare in un Pantheon esotico, da principio, ma poi forse, come me, sentirà la necessità di evaderne per far ritorno nel nostro quotidiano fatto di sudore e sangue, di sentimenti vivi e scomposti, di vita vera. Vi è l’impressione che questo lontano popolo, di cui Murakami ci racconta, abbia soffocato con un tappo a tenuta stagna la realtà del vivere, le reazioni, i sentimenti, il ridere e il piangere. Al massimo riesce a darci notizia del vomito di un uomo, il massimo concepibile per una reazione emotiva.

E comunque resta il fondo buio e silenzioso, dove l’odore che prevale è quello della muffa, del pozzo dove Okada ama scendere e perdersi, per ore e per intere giornate, quasi che esso rappresenti un antro fetale, un luogo primigenio nel quale andare a cercare un senso alla propria esistenza perduta.

Leggere spesso ha il merito di portarci lontano, a conoscere una vita che non potrebbe mai essere la nostra, a conoscere caratteri e persone che mai incontreremo.
Murakami mi ha rapita per settimane al suo, ma non riesco a immaginare quei luoghi come possibili indirizzi nei quali mi piacerebbe andare. Una conoscenza solo intellettuale, una risposta a una curiosità solo mentale: è il massimo che posso trarne.

Vi sembrerà strano, dopo quanto ho scritto, ma quella del romanzo di Murakami, è una lettura che –con le dovute cautele- io vi consiglio di affrontare. Vi porterà molto lontano e vi ricondurrà alla vostra vita con un principio di sorriso. 
Flaminia P. Mancinelli

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